29 Marzo 2024

La geolocalizzazione è davvero un’arma a doppio taglio, dunque: se da un lato ci offre in modo del tutto ingenuo una serie di servizi superpersonalizzati, dall’altro è un evidente vulnus al diritto alla riservatezza di ciascun individuo, al quale viene limitata la possibilità di spostarsi liberamente e senza che terzi soggetti ne vengano a conoscenza.

Difendersi dai rischi connessi alla geolocalizzazione, tuttavia, è più semplice di quanto non appaia: se non vogliamo far sapere su Facebook, Twitter, Foursquare ci basta semplicemente non pubblicare informazioni che consentano – anche indirettamente – di far capire agli altri in che posto ci troviamo; allo stesso modo, lo smartphone (soprattutto se è Android) consente di attivare un doppio livello di geolocalizzazione: il primo basato sull’uso dell’antenna GPS e il secondo sullo sfruttamento delle informazioni delle reti di dati (WiFi e 3G) che ci circondano; molti pensano che spegnendo il solo GPS si fermi anche la geolocalizzazione mentre, in realtà, essa continua sfruttando il secondo livello illustrato prima, pertanto è opportuno verificare che il telefono non sia impostato per ricavare le informazioni geografiche anche dalle reti di dati circostanti.

Per difendersi meglio dai rischi esposti, perciò, è necessario abilitare una funzione che sempre più spesso viene trascurata quando si maneggia uno smartphone: il cervello.

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